23 maggio 2022
Un paziente, a seguito di un sinistro, si era recato al Pronto Soccorso per un forte dolore alla gamba e al bacino. Il personale sanitario incaricato, a seguito di radiografia, riteneva non vi fosse alcuna frattura e, dunque, dimetteva il paziente dalla struttura.
Successivamente, lo stesso decedeva a causa di trombosi polmonare, che veniva indicata come conseguenza alla stasi imposta a carico del paziente in ragione della frattura ossea.
In considerazione di tali fatti, i parenti della vittima decidevano di adire il Tribunale al fine di ottenere il risarcimento dei danni da loro subito per il decesso del parente e sostenendo, a fondamento della loro pretesa, la responsabilità del personale sanitario che, secondo la loro tesi, aveva omesso, non solo di accertare la frattura ossea al bacino, ma anche di prescrivere gli opportuni presidi terapeutici di carattere farmacologico (in particolare la somministrazione di eparina) ritenuti fondamentali per scongiurare il decesso dello stesso.
La domanda attorea veniva rigettata in primo e in secondo grado.
Secondo i giudici territoriali non erano emersi né elementi idonei a poter accertare in modo inequivocabile l’esistenza della frattura al bacino del paziente, né elementi idonei a far emergere con certezza la prova del nesso causale tra le omissioni contestate ai sanitari e il decesso del paziente.
Impugnata in Cassazione, la Corte (con sentenza n. 8114 del 14 marzo 2022) richiamava il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale la verifica del nesso causale tra condotta omissiva e fatto dannoso si basa sull’accertamento della probabilità del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno.
Tale accertamento deve realizzarsi attraverso un giudizio controfattuale attraverso il quale è possibile porre la condotta omessa come ipoteticamente compiuta e a quel punto è possibile considerare quale sarebbe stato lo svolgersi degli eventi secondo l’ipotesi del più probabile che non.
Dunque, i giudici di secondo grado, non avrebbero dovuto conformarsi al criterio del ragionevole dubbio esigendo la prova certa dell’efficacia salvifica del trattamento farmacologico, bensì avrebbero dovuto orientare il loro giudizio sull’efficacia rappresentativa degli elementi probatori, conformandosi alla maggiore probabilità, in termini logici, del successo terapeutico della somministrazione terapeutica.