La Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 9887/2020 conferma il principio ormai pacifico in base al quale, in ambito medico la manifestazione del consenso del paziente all’intervento chirurgico è espressione del diritto all’autodeterminazione, che trova il suo fondamento in quanto sancito dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2,della Costituzione. I Giudici precisano però che, nel momento in cui il paziente agisce in giudizio perché ritiene che il suo diritto all’autodeterminazione sia stato violato, è suo onere dimostrare che a causa delle informativa incompleta o errata del sanitario, avrebbe compiuto una scelta diversa, come rinviare l’operazione, scegliere un altro specialista o non sottoporsi proprio all’intervento.
La fattispecie
La Corte d’Appello rigetta, come in primo grado, la domanda risarcitoria avanzata da un paziente nei confronti di una clinica e del medico che ha raccolto il suo consenso informato in merito a un intervento chirurgico che gli avrebbe risolto, a suo dire, un problema al polso, mettendo in conto di perdere però il 30% di funzionalità dell’articolazione.
Dopo l’intervento, però, eseguito senza errori tecnici e nel rispetto dei protocolli, come rilevato anche dalla Corte, il paziente perdeva la funzionalità del polso nella misura del 68/70%.
Nonostante le conseguenze infelici dell’operazione però la Corte d’Appello ritiene infondata la richiesta risarcitoria avanzata dal paziente per non essere stato informato esattamente sui rischi. Questo perché i CTU hanno accertato che il paziente, prima dell’intervento, soffriva di una riduzione funzionale di 1/3, che dopo l’intervento saliva a 2/3. La riduzione del 30% prospettata dal medico quindi era di poco inferiore a quella del 34% riportata dopo l’operazione.
Il danneggiato, insoddisfatto dei risultati dell’Appello e del primo grado, decide di ricorrere in Cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello non ha preso in considerazione la critica sulla mancanza di esaustività del consenso informato, che il medico, nel prospettare un esito troppo ottimistico dell’intervento avrebbe violato il suo diritto ad autodeterminarsi liberamente, che la richiesta risarcitoria avanzata era incentrata non sull’intervento ma sulla violazione del diritto all’autodeterminazione e che i giudici del secondo grado di giudizio non hanno esaminato un fatto decisivo per la decisione e cioè che il medico gli aveva prospettato come esito dell’intervento un miglioramento della funzionalità dell’articolazione del polso. Affermazione incompatibile con il risultato dell’intervento che ha ulteriormente aggravato la situazione. La perdita della funzionalità prospettata dal medico quindi deve essere interpretata in senso assoluto, non come incremento ulteriore della invalidità preesistente.
Il principio di diritto
La Cassazione, rigetta il ricorso avanzato dal paziente con ordinanza n. 9887/2020 per più motivi.
In prima istanza, il ricorso viene ritenuto infondato perché la riduzione della mobilità del 30% prospettata dal medico, ha coinciso con il difetto che affliggeva già il paziente.
Inoltre, secondo i supremi Giudici, il ricorrente non può sostenere che, se fosse stato informato adeguatamente non si sarebbe sottoposto all’intervento, lo avrebbe differito o si sarebbe rivolto a un altro medico “senza portare fatti dimostrativi a monte che il paziente avrebbe esercitato” perché tale dimostrazione costituisce “elemento integrante dell’onere della prova del nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso, che in applicazione dell’ordinario criterio di riparto ex art. 2697 c.c. comma 1, compete ai danneggiati.”
Gli elementi costitutivi della richiesta risarcitoria per lesione del diritto all’autodeterminazione cagionata dalla inesatta o incompleta informazione del medico, infatti, non può prescindere dalla prova che il paziente, se correttamente informato sarebbe stata diversa, magari rifiutandosi di sottoporsi all’intervento. La Corte infatti chiarisce che: “la omessa informazione assume di per sé carattere neutro sul piano eziologico, in quanto la rilevanza causale dell’inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa “consenso/dissenso” che qualifica detta omissione, laddove, in caso di presunto consenso, l’inadempimento, pur esistente, risulterebbe privo di alcuna incidenza deterministica sul risultato infausto dell’intervento, in quanto comunque voluto dal paziente; diversamente, in caso di presunto dissenso, assumendo invece efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l’intervento terapeutico non sarebbe stato eseguito – e l’esito infausto non si sarebbe verificato – non essendo stato voluto dal paziente.”
Per gli Ermellini la Corte ha correttamente individuato l’oggetto della richiesta risarcitoria, ha negato il contenuto erroneo e ingannevole dell’informazione fornita dal medico e ha ritenuto non indebolito il consenso prestato dal paziente. Fatto questo il giudice dell’impugnazione non era tenuto a eseguire ulteriori indagini in ordine ad altri pregiudizi subiti dal paziente.
Inammissibile infine il quarto motivo perché riguarda un documento già vagliato dal Giudice d’appello e quindi tesa ad ottenere una nuova valutazione di merito che non è consentita in sede di legittimità. In ogni caso la Corte ha ritenuto che l’indicazione nell’informativa di “un rischio di insuccesso quantificato percentualmente in termini di ulteriore invalidità, era idonea a consentire al paziente una adeguata ponderazione nella scelta.”